Cassazione penale, sez. VI, 21 marzo 2023, n. 11901

La Corte ha confermato la condanna del ricorrente, pur ravvisando l’ipotesi della lieve entità, ritenendo configurabile una coltivazione illecita di cannabis: a tal fine ha, essenzialmente, valorizzato la circostanza del rinvenimento di un’unica piantina messa a dimora nel cortile esterno, alta m. 1.60, con produzione di un principio attivo, tratto da foglie e fiori essiccati, corrispondente a circa 160 dosi.
Nel contempo la Corte ha dato conto dell’irrilevanza del fatto che la coltivazione artigianale/domestica sia oggettivamente destinata ad uso personale. Ciò posto, deve rilevarsi che sul complesso tema dell’inquadramento dell’attività di coltivazione e sul rapporto tra tale attività e destinazione ad uso
personale della sostanza stupefacente ricavata è intervenuta una significativa pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Sez. U, n. 12348 del 19/12/2019, dep. 2020, Caruso, Rv. 278624), che costituisce un decisivo parametro di valutazione.
Le Sezioni Unite hanno posto al centro dell’analisi il profilo della tipicità, escludendo che potesse dirsi decisiva la mera destinazione soggettiva ad uso personale e dando invece rilievo al profilo oggettivo-strutturale, correlato alla
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compresenza di plurimi elementi, che devono convergere nel senso dell’esclusione del reato.
In particolare è stata valorizzata la prevedibilità della potenziale produttività, quale parametro che consente di distinguere fra coltivazione penalmente rilevante, dotata di una produttività non stimabile a priori con sufficiente grado di precisione, e la coltivazione penalmente non rilevante, caratterizzata da una produttività prevedibile come modestissima. E’ stato però sottolineato che tale parametro, per poter operare con sufficiente certezza, deve essere ancorato a presupposti oggettivi – in parte già individuati dalla giurisprudenza (ex plurimis, Sez. 3, n.
21120 del 31/01/2013, Colamartino, Rv. 255427; Sez. 6, n. 6753 del 09/01/2014, M., Rv. 258998; Sez. 6, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170 e Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168) – che devono essere tutti compresenti, quali: la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell’attività nell’ambito del mercato degli stupefacenti, l’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso personale esclusivo del coltivatore, essendo per contro insufficiente la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l’intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale.
Ma alla luce di tali principi, deve prendersi atto che gli elementi della concreta fattispecie, pur valutati congiuntamente, non convergono nel senso della riconducibilità all’ipotesi della coltivazione tipica, penalmente rilevante, in senso contrario deponendo, secondo quanto condivisibilmente sottolineato dalla difesa, l’assenza di indici che consentano di ipotizzare un concreto collegamento con il mercato degli stupefacenti, a fronte di un’oggettiva destinazione all’uso personale, la rudimentalità dell’attività di coltivazione, risolventesi nella messa a dimora di un’unica piantina, dalla limitata sfera di produttività, non tale da rendere concretamente prospettabili margini di imprevedibilità e da oltrepassare la sfera di quell’oggettiva destinazione, di per sé non contraddetta dal principio attivo in atto ricavabile da quella piantina.
Né è dato comprendere come possa diversamente inquadrarsi il rinvenimento di due trita-erba.
Da ciò discende che il fatto, come ricostruito nella sentenza impugnata, non può essere sussunto nella fattispecie della coltivazione, penalmente rilevante, con la conseguenza che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste”.

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