Il vecchio approccio al mobbing: l’intento persecutorio serveva
Tradizionalmente, per configurare il mobbing si richiedevano questi elementi:
- una serie sistematica e protratta di condotte (anche formalmente “legittime”) contro il lavoratore, da parte del datore o superiori;
- un “danno” — psicologico, morale, esistenziale — per la vittima;
- un nesso di causalità tra le condotte e il danno.
- una prova dell’elemento soggettivo: cioè che le azioni — anche se formalmente legali — fossero mosse da un intento persecutorio e sistematico verso la vittima.
In assenza di questo intento, la semplice conflittualità, critiche o provvedimenti disciplinari — pur legittimi — non erano considerati mobbing.
Cosa è cambiato: il focus ora è sull’ambiente di lavoro e sul benessere del lavoratore
Secondo un orientamento sempre più consolidato della Corte di Cassazione:
- Quando l’ambiente di lavoro diventa “stressogeno”, con comportamenti — anche singoli, “non necessariamente coordinati da un disegno persecutorio” — che causano danno alla salute o alla dignità del lavoratore, si può configurare responsabilità del datore ai sensi dell’articolo 2087 c.c..
- In questi casi, non è indispensabile dimostrare un progetto persecutorio, ma basta provare che le condizioni lavorative hanno violato l’obbligo di tutela della salute psicofisica del dipendente.
- I comportamenti possono anche essere “formalmente legittimi” (es. trasferimenti, sanzioni, mansioni diverse, richieste di lavoro, cambiamenti), purché nel complesso generino un ambiente nocivo, degradante oppure pericoloso per la salute.
- L’onere per il lavoratore si concentra quindi su: fatto illecito (cioè violazione degli obblighi di sicurezza o dignità), danno subito e nesso di causalità. Non è più necessario — in tutti i casi — provare un intento persecutorio organizzato.
In altre parole: anche in assenza di “mobbing classico” (cioè persecuzione cosciente e sistematica), un ambiente lavorativo lesivo può essere sanzionato.
Le implicazioni pratiche: cosa cambia per chi denuncia
| Prima (approccio tradizionale) |
Adesso (orientamento attuale) |
| Occorre dimostrare “disegno persecutorio” e sistematicità finalizzata all’esclusione |
Basta documentare che l’ambiente era stressogeno e dannoso per la salute/dignità |
| Spesso veniva rigettata la domanda se fatto soggettivo non provato |
Possibilità di ottenere risarcimento anche senza prova di “intento persecutorio” |
| Più difficile far valere situazioni ascrivibili a “tensione”, stress, conflitti |
Più facile ottenere tutela, riconoscimento danni, tutela ai sensi art. 2087 c.c. |
Cosa significa “non serve più l’intento persecutorio”
- Se un lavoratore prova che l’ambiente di lavoro lo ha danneggiato (psicologicamente, moralmente, nella sua dignità) — anche senza un disegno organizzato di persecuzione — può chiedere il risarcimento.
- Non serve dimostrare che ogni singolo episodio fosse pensato per “danneggiare” la persona, né una strategia unificata e preordinata.
- Ciò non significa che ogni litigio, stress, o conflitto sia sempre “mobbing”: ma se si dimostra che l’organizzazione del lavoro o il modo in cui viene gestito hanno violato gli standard di tutela della salute e dignità del lavoratore, la tutela può esserci.
Limiti, ancora validi
- Non ogni situazione conflittuale viene riconosciuta: occorre che emergano prove concrete di danno e nesso di causalità. Le tensioni “normali” o occasionali restano fuori.
- L’onere di provare il danno e la causalità resta in capo al lavoratore.
- L’uso delle etichette come “mobbing”, “straining” rimane utile come guida, ma non è più l’unico modo di ottenere tutela: ciò che conta è la lesione dell’obbligo di tutela della salute (art. 2087 c.c.).
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